giovedì 28 giugno 2012

Due compagne di stanza.




L’ho sempre trovato incredibile: sono qui dentro a trascorrere gli ultimi anni della mia vita e…non so con chi posso capitare in stanza. Io poi sono difficile. Ho dei problemi a trascorrere anche solo un week end nella stessa camera con te, se non ti conosco. Anche se non ti conosco bene. Anche se non ti conosco benissimo. Trascorrerei un week end nella stessa camera solo con 5 persone al mondo. Forse 4. Sicuramente 2. Sì, lo so, io sono difficile.

Però in questi posti si paga una barca di soldi e si entra sperando di trascorrervi ben più di un week end. E neanche posso portarmi la compagna di stanza da casa. Neanche posso sceglierla. L’ho sempre trovato incredibile.

E così non si sono scelte queste due signore e tutti sono sicuri che, conoscendosi, non si sarebbero mai scelte. Una sicuramente. L’altra non lo sappiamo.

Più di un anno a dividere le stesse notti e gli stessi risvegli. A partecipare, volenti o nolenti, alle malattie dell’altra, ai dolori dell’altra, alle difficoltà dell’altra. Più di un anno a mostrarsi in un’intimità che rende fragili agli occhi di un amico; che annienta agli occhi di uno sconosciuto.

Una più silenziosa e riservata. Raramente ha dato confidenza. Signora elegante nei modi e nei vestiti; nelle parole e negli oggetti riposti con cura sopra al suo comodino. Poteva sembrare antipatica nel suo distacco, ma era molto più simpatica di tanti tra i più amichevoli.

L’altra più chiacchierona e gioiosa, con quel suo modo di ridere tanto da trattenere il fiato fino a farti spaventare, per poi dirti: “Sciocca, non mi far ridere così che mi fa male!”. Sempre con qualcosa da dire, sempre al centro della scena, alla quale non puoi far altro che affezionarti, fosse solo per quel suo modo puntuale di ripetere a pappagallo tutto quel che stai dicendo, se non lo stai dicendo a lei, finchè non smetti di parlare con l’altra persona e non le dedichi tutta la tua attenzione.

Due signore così diverse, diventate per più di un anno, prime protagoniste nella vita dell’altra.

E tra tutte le coppie che da sempre nascono, mai nessuna ha avuto un corso così sbagliato e infelice.

Almeno secondo i racconti della più chiacchierona.

“Si lamenta sempre dei suoi mali. E cosa pensa? Che io non abbia mali? Li ho anch’io, ma mica passo tutto il giorno a lamentarmi con lei! E poi lo sai che è invidiosa? Perché io oggi ho fatto le scale e invece a lei non le lasciano fare perché non è capace. E io lo so che è invidiosa anche se non me lo dice.”

Non ho mai scoperto con certezza se questa antipatia fosse reciproca o solo dalla sua parte; ma ho sempre sospettato che l’altra signora fosse troppo superiore per badare a queste piccole cose.

Non come la prima, così avversa da non entrare nella mia stanza se già era presente l’altra.

Per più di un anno ho sentito frasi velenose: “La mia simpaticona passa il tempo a mettersi lo smalto: ma chi pensa che debba vedere le sue mani?? Non riceve mai visite! Anzi, ha sempre da ridire quando viene mia figlia, perché facciamo rumore, ma è solo perché lei non ha nessuno!”.

Fino a ieri. Quando la signora più chiusa, nel suo modo riservato, si è spenta. E tu non sei più riuscita a smettere di piangere. E forse non era così vero che lei non aveva nessuno. Per più di un anno ha avuto te che, sotto le tue cattiverie e le tue malizie, l’hai amata in un modo che neanche tu immaginavi.






E così non si sono scelte queste due signore e tutti sono sicuri che, conoscendosi, non si sarebbero mai scelte. Una sicuramente. L’altra non lo sappiamo.


domenica 24 giugno 2012

14 novembre.


Ci vedo dall’alto.

Belle come solo noi due sappiamo essere. Io nella mia eleganza disinvolta e di una semplice e sorridente bellezza. Lei, un colore in mezzo al grigio.

Che andiamo con i nostri pensieri, rabbrividendo un po’ nel freddo di novembre. Un occhio all’orologio e la testa a pensare ai pazienti della giornata e agli impegni del pomeriggio. È il momento in cui pianifichiamo quel che avverrà oggi, decidiamo quanta voglia abbiamo di fare le cose e scegliamo quella che aspetteremo con più piacere. E’ un momento solo nostro. Che oggi non è accompagnato da nessuna colonna sonora, perché col nuovo passamontagna le cuffie non ci stanno.

Ci vedo dall’alto e ci invidio. Mi piacerebbe far parte di quella coppia.

E poi non vedo più niente.

Vedo la pellicola che si interrompe bruscamente e se ne attacca un altro pezzo, che si vede che è finto, frutto dell’immaginazione; e non lo vedo precisamente perché mi fa male allo stomaco e sento gli occhi lucidi, quindi lo intravedo quanto riesco a sopportarlo; e ci intravedo mentre veniamo separate, perdo di vista lei e concentro la mia attenzione su di me e…

E mi faccio tenerezza. Mi faccio tenerezza, così indifesa, di fronte a qualcosa di inaspettato, improvvisamente sola, che non capisco. Mi fa tenerezza vedere il mio viso colpire un paletto, colpire terra, colpire il motorino, colpire qualcosa che non capisco cosa sia, non ricordo. Mi fa tenerezza lo sguardo smarrito, interrogativo, lo sguardo senza difese. Che non vuole creare disturbo, che vorrebbe dire che va tutto bene, perché non concepisce che qualcosa possa non farlo. Perché ancora pensa che deve andare a lavorare, perché deve andare da quella signora, lei me l’ha detto che senza di me non avrebbe saputo cosa fare, non posso permettermi di non andare da lei.

Mi vedo dall’alto. Sdraiata per terra, gli occhi chiusi. Muovo le gambe e le braccia, io le muovo, ma loro mi sembra che rimangano ferme. Credo di essere ancora viva perché mi sento che sono lì a terra, però inizio a temere che le cose che ho studiato e che ho sentito possano succedere anche a me. E inizio a sentire quella sensazione di impotenza, quella sensazione del prima potevi e un attimo dopo non puoi più. Ho paura come non ne ho mai avuta.

Rumori e voci intorno a me che non distinguo e che non ho voglia di sentire. Me ne sto lì, buona buona. Sono stanca. Non riesco ad aprire gli occhi, pesano troppo. Penso a come sia possibile essere ora sedute sulla Gilda e dopo un secondo sdraiate in mezzo alla strada, senza un collegamento tra questi due momenti. Uno non può prendere e sdraiarsi in mezzo alla strada nel traffico mattutino di Milano. Spero che qualcuno si occuperà di me, perché io ora non ci riesco. Non riesco a occuparmi di me. Tengo gli occhi chiusi e spero che qualcuno mi prenderà in braccio e mi porterà a casa. Continuo a non capire, però mi sembra di dire qualcosa. Rispondo a delle domande forse. Mi sembra di guardare un film, seduta al cinema, ma allo stesso tempo ho l’impressione di recitarlo. O forse ho l’impressione che qualcuno sia entrato dentro di me e faccia e dica delle cose che però non sono io a comandare. Vorrei che non fosse successo. È una seccatura.

So che sono una terapista occupazionale, ma non mi interessa ora che tu sappia che cos’è. So che giorno è, ma non so se te lo dico giusto. So che ti ho già chiesto dove stiamo andando, solo che non ricordo cosa mi hai risposto.

Sono miracolata? Boh..non le capisco queste cose. Credo di aver avuto un brutto incidente e credo anche che mancavo così tanto a qualcuno che mi voleva lì con loro, ma poi ha capito che forse era un gesto egoista e ha cercato di riparare. Credo semplicemente di aver avuto un brutto incidente e di essere stata fortunata.

Certo che io e la Gilda torneremo di nuovo insieme, a meno che lei non sia arrabbiata con me. Staremo più attente? No, perché lo siamo sempre state, non posso dire che lo saremo di più. Magari mi fiderò meno degli altri e non penserò più che certe cose a noi non succedono.

Certo che non so come troverò il coraggio di salire di nuovo sulla Gilda, ma so che senza paura non c’è coraggio, e la paura c’è.





lunedì 18 giugno 2012

Ieri, oggi e domani




Ha 58 anni e non capisce niente. Ma non come quel pedone che questa mattina ha attraversato con il rosso e lo stavi per investire; e neanche come il giornalista di cui abbiamo appena sentito il servizio al telegiornale o come il tuo fidanzato col quale hai litigato da poco. Lei non capisce niente come quando le dai in mano una tazzina del caffè e non capisce cosa debba farci con quel liquido nero dentro a un oggetto così piccolo. Improvvisamente fragile tra le sue mani. Che si può spezzare da un momento all’altro. Basta un movimento appena appena più brusco. Si può spezzare. Come la voce del marito che racconta.

Era una giornata di molti anni fa. Non ricordo precisamente quanti. Trenta forse, o forse meno. Sembra un’altra vita. Io ero di cattivo umore: avevo dormito male e avevo un esame importante quel giorno. Stavo andando in università con la bocciatura nella testa. Cercavo di ripassare nella mente tutte le leggi che avrei dovuto sapere a memoria. Quante cose inutili che cerchi di ricordare negli anni. Quanta memoria sprecata. In ogni caso non riuscivo a finirne nemmeno una. Ero in largo anticipo, allora sono entrato in un bar per bere un caffè e mi sono messo a leggere il giornale, tentando così di distrarmi. Poi la porta si apre. E quel campanello suona. Il campanello che avvisa che qualcuno sta entrando nel locale, mi stava avvisando in quel momento che mia moglie stava entrando nella mia vita. E che la stava cambiando. La mia vita di quel giorno. La mia vita di oggi. E la mia vita di domani.

Lei non sta ferma un attimo. Ormai non riesce più neanche a stare seduta su di una sedia. Cammina da un angolo all’altro della stanza. E tu la devi seguire perché non capisce che le sedie sono degli ostacoli; ci va a sbattere ripetutamente, rischiando così di cadere. In questo modo si è procurata il braccio viola che ha ora. È andata a sbattere contro la poltrona rossa nel salotto di casa sua. Ed è caduta. Come una bambina.

Ci abbiamo messo un’eternità a trovare una casa che ci piacesse. Io ci avrei messo anche meno tempo, ma a lei non andava mai bene niente. Abbiamo girato mesi e ogni volta che uscivamo da un appartamento o da una villetta che a me pareva splendida, lei diceva solo: “Non è lei”. Niente, nessuna spiegazione, semplicemente non era lei. Non avevo neanche il coraggio di arrabbiarmi: tutte le volte lo faceva sembrare un giudizio così ovvio. Poi un bel giorno mi telefona e mi dice con la musica nella voce: “Ok, trovata!”. Era lei. Ed era vero. Non poteva essere nessun altra che quella casa nostra. E così ci siamo sposati.

Ti guarda e scoppia a ridere. Senza motivo. O almeno senza motivo a te apparente. Inizia una frase che non finisce. Borbotta tra sé qualche verso. Si lascia scappare un timido sorriso e poi torna immediatamente seria e si guarda intorno. A un tratto riprende a camminare, in maniera diversa da prima, ora ha una meta: ha visto qualcosa e lo vuole. I suoi occhi hanno trovato quella bambola nella cesta. Lei si è avvicinata, ma non è in grado, da sola, di prenderla. Non è più in grado di prendere una bambola in braccio. La guarda, poi guarda te, poi guarda ancora la bambola. Sposta la sua emozione da un piede all’altro.

“La vuoi?”
“Sì, sì..la voglio..ecco..non so..sì..la voglio..non so..però..mah..boh..non so. Che bella che è..sì vediamo boh. Chi lo sa..devo andare..”

La prendi tu per lei e gliela metti tra le braccia. In questo momento è di nuovo mamma.

Quanto discuteva con nostro figlio!! Lo ha amato così infinitamente che per lui ha sempre voluto il meglio. Non gliene lasciava passare una. Io ero più ingenuo. Mio figlio mi ha fregato tante di quelle volte. Con lei invece non ci è mai riuscito. Tuttavia ho sempre visto quanto forte fosse quello che c’era tra loro. Non con gelosia, davvero, più con affetto. Anche tra me e lui c’è un legame fortissimo, ma il loro era … speciale. Fortificatosi con tutte le discussioni; inteneritosi con tutti i momenti in cui facevano la pace.

Ora è qualche anno che hanno divorziato. Lui si è fatto forza e ha trovato il coraggio di ricominciare da capo, di ricostruirsi una nuova vita, ripartire dal principio. Tuttavia in questi anni non l’ha mai lasciata e tutte le settimane almeno una giornata la passa insieme a lei. Insieme a questa donna di 58 anni, che peserà circa 40 chili, che fa la pipì addosso, che urla e che piange, che dice delle parole che non si capiscono. Insieme a questa donna che non lo riconosce più. Insieme a questa donna che ha cambiato la sua vita. Quella di ieri, quella di oggi e quella di domani.

Perché, per tutti i giorni a venire, lui si chiederà se ha fatto la cosa giusta decidendo di portare la donna in un luogo che lei inizierà a chiamare casa e dove, per tutti i giorni a venire, qualcun altro si prenderà cura di lei.


lunedì 11 giugno 2012

Scelgo me.


Ho voglia di andare via. Da questa città e dalla mia vita.
Dalla mia vita. Un’altra vita in questa città andrebbe bene.
Dalla tristezza e dalla stanchezza. Da una stanca tristezza.
Ho voglia di scegliere me.

Ho deciso. Finalmente.. Domani parto! Se qualcuno vuole venire con me sono contenta, ma se no vado anche da sola. Devo scappare, anche solo per due giorni, anche solo con me.

Mi sveglio e mi faccio una doccia che è il modo che preferisco per iniziare una giornata e la giornata della mia fuga deve iniziare nel modo che preferisco.

Preparo la borsa, mettendo dentro più libri che vestiti, prendo la chitarra e il computer, recupero un po’ di latte e una mozzarella, Mc Gyver mi suggerirà poi cosa farmene…

Non ho birra.

Una fuga senza birra non è una fuga, e una giornata iniziata con una doccia non ci pensa neanche di poter finire senza una birra. E le dò ragione. Ok, porto tutto in macchina e faccio un salto al supermercato.

Mi apriranno la macchina per portar via i miei libri?

Lo temo. Non mi fido più.
Non mi fido più degli altri.
Qualche tempo fa questo pensiero non avrebbe fatto in tempo a raggiungermi che io già sarei stata con in mano una bottiglia di Beck’s e nell’altra una lattina di Heineken, immersa nella puntuale indecisione. Oggi ho questo pensiero già mentre faccio la doccia.
Porto le cose in macchina, ma tengo sicuro sulle mie spalle il computer, potrebbe fare da esca ai miei libri se qualcuno lo vedesse in macchina.. Chiudo con la chiave il baule, faccio due passi per scovare tutti i ladri che, ne sono certa, sono lì nascosti solo per spiare i miei movimenti e poi torno indietro. Ad accertarmi di aver davvero chiuso la macchina. Chiusa.



Dopo lo smarrimento iniziale che, ogni volta, da buona cittadina, mi colpisce e mi fa domandare come mai i clacson delle macchine siano diventati suoni di campanacci di mucche o allegri cinguettii, sono tornata finalmente a essere leggera. Sono tornata finalmente a Serina.

Ed è con leggerezza che cammino per queste stradine, mentre due lattine di Heineken mi aspettano in frigorifero, solo perché la Beck’s mi costringeva a comprare tre bottiglie che, per una sera, sembravano esagerate anche alla mia fuga. La mia giornata iniziata con doccia per un po’ ha insistito, ma poi la fuga ha vinto..

Con leggerezza mi fermo da qualche parte, registrando nella mente immagini che chissà se prima o poi trasformerò in racconti. Intanto sto qui ad osservarle e inizio a trasformare me in prima spettatrice. Perché in questi due giorni ho voglia di scegliere me.

Con leggerezza scrivo un messaggio a una delle poche persone che so che mi capirà immediatamente; capirà quello che intendo; senza capire quello che non intendo.

“Bisognerebbe vivere a Serina. Altro che Milano e altro che Cogoleto.. A Serina c’è una magia che dà la merda anche alla magia di Bosco…”

Sarà la magia del tempo che si è fermato, non è passato e, aiutato dagli odori e dai profumi, mi fa vedere una piccola Lele che saltella, chiedendosi se anche oggi avrà le bolle di sapone dato che ieri per sbaglio le ha rovesciate; protetta dagli sguardi dei suoi nonni che, qualche metro dietro di lei, la amano tenendosi a braccetto, mentre una mano scivola nel portafoglio per prendere duemila lire che faranno la felicità della nipotina..

Crogiolandomi in questo passato rassicurante entro in edicola.

Voglio comprare il giornale perché quando vengo qui lo compro spesso. Mi sa di vacanza. Quando vado al lavoro non leggo il giornale, quindi se lo leggo sono in vacanza.

E voglio comprare anche “La settimana enigmistica” perché il nonno la comprava sempre alla nonna. Ora in casa ce ne sono solo di vecchie. Nessuno le ha più comprate. È un modo per farli sorridere. Quando mi vedranno comprarla e quando mi vedranno con la penna in bocca incerta sulle definizioni da scrivere.

In edicola non c’è nessuno.
È aperta, ma nessuno dietro al bancone.
Mi guardo un po’ in giro con un senso di onnipotenza, annientato immediatamente dalla vista di… “Topolino”!
Lo sfoglio.
Lo voglio.
Perché mi ricorda la zia e mi piace quando in montagna ci sono gli zii, ci sto bene. Ho voglia di leggere “Topolino” perché è famigliare; come questo paesino non è cambiato nel corso degli anni. Non mi ha mai tradito, non è mai sparito. Non è mai cresciuto.
Lo voglio.

Arriva la signora dell’edicola. Sorridendo. Come se fosse la cosa più normale del mondo avere il negozio, che dà direttamente sulla strada, aperto a tutti, senza nessuno che lo controlli. Vorrei chiederle se ha mai lasciato un computer in macchina. Vorrei chiederle cosa ne pensa di chi non si fida a lasciare il computer in macchina. Ma poi ho paura che capisca che stia parlando di me.

Le sorrido. Sia perché lei mi sorride, sia perché sorrido sempre. Credo che la gente debba sorridere di più. Io sto meglio quando la gente mi sorride, quindi penso che anche gli altri possano stare un po’ meglio se io gli sorrido. Gli altri pensano che io sia una babbea se sorrido sempre? Sorrido a questo pensiero.

“Vorrei questo giornale, “La settimana enigmistica” e… “Topolino”!”.

Che splendida leggerezza. Dire ad alta voce, e di fronte a qualcuno, che vuoi comprare “Topolino”, e vedere come l’altra persona pensi che voler comprare “Topolino” sia una cosa naturale.. che splendida leggerezza!

“Sono 5 euro e 30 centesimi”

Ho solo 5 euro.

Per sentirmi una perfetta montanara ho lasciato la borsetta in casa. Ho preso 5 euro, li ho messi in tasca e sono uscita. Sono tornata indietro a prendere il telefono perché la cittadina che è in me si rifiutava di fare altri due passi senza il suo smartphone. Almeno ci ho provato. Ma a prendere più di 5 euro non ci ho pensato. Non ho pensato che avrei voluto comprare “Topolino”.. Chi vuole comprare “Topolino”? Io no di certo..

Cosa faccio? Come si fa a scegliere tra la vacanza, la nonna e la zia? Nessuno dovrebbe mai essere posto di fronte a una scelta del genere. Figuriamoci una persona che è nel periodo della sua vita in cui non sa scegliere.

Vorrei improvvisare un ragionamento clinico, discutere insieme ai miei compagni di università questo dilemma etico. Vorrei discuterne con Julie, lei saprebbe cosa fare.

“Non si preoccupi, i soldi di “Topolino” me li può portare domani.”

Penso che la nonna è morta, quindi non può rimanerci male se lascio qui “La settimana enigmistica”. Ma la zia è forte, non si offenderà se rinuncio a “Topolino”. E poi io non ho bisogno di un giornale per sentirmi in vacanza, basta essere a Serina!

“Li può prendere tutti e tre, davvero. Finisce di pagarmeli domani..”

E se la nonna davvero riuscisse a vedere giù e ci rimanesse male? E se la zia non fosse poi così forte, lo venisse a sapere e si offendesse? E se io senza giornale mi sentissi oppressa dal lavoro?

“Signorina, ha capito quello che le ho detto?”

“No.. veramente no.. L’ho sentito, ma non è che l’ho capito tanto bene.. Cosa vuole dire che li posso prendere tutti e tre senza pagarli tutti e tre..?”

“Che non c’è problema e il resto me lo può portare domani quando scenderà in paese..”
“Li posso prendere, ora, senza pagarli, ora..?”
“Sì.. Me li pagherà domani..”
“Ma.. non ha paura che invece non glieli riporti.. Insomma.. dopotutto lei non mi conosce..”
“No..non ho paura..”
“Perché..?”
“Perché mi fido di lei.”

Grazie.

Grazie signora.
Che mi ha aiutato.

Che mi ha aiutato a scegliere me.



giovedì 7 giugno 2012

Giusy.



 Ciao sono Giusy. Come sei carina. Sei proprio una bella ragazza.
 
Giusy, 45 anni circa. Indossa una gonna lunga, delle vecchie scarpe nere, con un filo di tacco, e un maglioncino. E’ bionda, dagli occhi azzurri. Doveva essere una donna bellissima. E’ truccata. Gli occhi incorniciati dalla matita nera e sulle guance un velo di rosa che la fanno sembrare una bambola di porcellana.
Non dà fastidio a nessuno. Beve il suo caffè, poi torna a camminare, da sola. Quando incrocia il tuo sguardo ti sorride intimidita e ti saluta, ti saluta sempre, anche se lo ha appena fatto; non ti vuole disturbare, anche se le piacerebbe moltissimo avere la tua attenzione.
 
Così distante e inavvicinabile, irraggiungibile e sfuggente. Eppure è un attimo. Un attimo aspettato da tanto probabilmente.
 
Ciao! Io sono Elena, tu come ti chiami?
 
Giusy.
 
Immediatamente la porta si spalanca così l’immaginato smette di essere tale, ma diventa, in quell’attimo tanto aspettato, svelato. Quello che si nascondeva dietro ti travolge con la sua verità, la sua ingenua bellezza, la sua disarmante semplicità.
 
Sei proprio una bella ragazza, lo sai? Anche a me piacerebbe essere come te. Tu sorridi sempre e tutti ti raccontano le cose perché si vede che sei proprio una brava ragazza. Ma quanti anni hai? Sei così giovane! Che begli orecchini che hai! Io non li posso più mettere perché mi fanno male. E anche che bella collana che hai! Io sono un po’ preoccupata perché mia mamma deve fare la dialisi. E’ caduta l’altro giorno e si è fatta male. Ma tu sai se la dialisi fa male?
 
Ma tutto questo è solo lo sfondo di Giusy. Lei aspetta.
Lei trascorre i suoi giorni davanti alla finestra di casa sua, guardando giù, per strada. Perché una volta, per quella strada…

Era pomeriggio e lei, per caso, stava guardando giù, quando è passata una macchina. Sulla macchina c’era un ragazzo bellissimo, moro e bellissimo. Lui ha guardato su, ha incrociato il suo sguardo e le ha sorriso.
Di fianco a lui c’era seduta una ragazza, ma se lui ha sorriso a Giusy, vuol dire che quella ragazza era solo un’amica, o sua sorella. Lui è innamorato di Giusy, lei lo sa. E da quel giorno, allora, lei lo aspetta. Lei è convinta che tornerà, la verrà a prendere e vivranno per sempre felici insieme.
 
Per questo lei tutti i giorni guarda giù da quella finestra. Perché magari è questo il giorno che cambierà la sua vita per sempre.
 
E lei è serena. Perché sa che lui la ama.


sabato 2 giugno 2012

Sarah, angelo all'inferno.






Oggi il mondo mi fa schifo.
 
Camminavo tra quelle “strade” con lo spirito che avevo ad Auschwitz. Solo che qui le persone erano ancora vive. Ancora. Sarah almeno per ora.
 
Ci avviciniamo alla “scuola” di questa baraccopoli e vedo una bambina alta tanto quanto il mio ginocchio, a piedi nudi, in mezzo allo schifo, in una specie di fosso che non riesce a superare. Rimane appoggiata ad una parete. Piange. Non è giusto che sia li. Dovrebbe esserci vicino a lei una mamma che le ha comprato un sacco di vestiti e di scarpe, quelle che ti fanno impazzire da quanto sono piccoline; che non la lascia andare in giro da sola neanche per casa. Ma quale casa?
 
La ferrovia passa qua in mezzo, nella larghezza di 6 metri. Ci fermiamo perchè sta per arrivare il treno. Mi riposo un po’. Volto gli occhi e un panorama di tetti di lamiera invade la mia testa. Come quelli che vedi nei libri di scuola, quelle foto che guardi un attimo, ma giri subito pagina perchè lo sai che ci sono queste cose, ma cosa ci puoi fare tu? E poi mica è colpa tua, oh!
 
Sarah ci accompagna in questo nostro giro. Sarah è una donna bella con gli occhi che ridono sorridendo.
A un certo punto ci fa entrare in una baracca e non capisco bene il motivo.
Poi ci spiega.
È casa sua.
Una minuscola stanza con un sacco di cose accatastate alle pareti; un tavolino in mezzo circondato da tre “panchette”. Una parete è un lenzuolo che copre la stanza da letto. La stanza in cui siamo ora è cucina, salottino..tutto quello che non è stanza da letto.
 
Ne va fiera.
 
Ci sediamo e ci chiede se può offrirci da bere.
Cerchiamo di rifiutare, ma insiste.
Poi esce per tornare poco dopo con una bottiglia di coca, una di sprite, una di fanta e una di limonata. Sorridendo le appoggia sul tavolino. Poi si gira, si abbassa e tira fuori dei bicchieri. Si ferma e va nell’ “altra stanza” tornando con un fazzoletto con cui li spolvera. Le chiediamo cosa voglia lei da bere, ma risponde di non preoccuparci e sparisce di nuovo per tornare con una bottiglia di fanta già cominciata. Rimane in piedi perchè per lei non c’è più posto e ci racconta che vive li con suo marito (un elettricista), suo figlio, sua nipote e un ragazzo che hanno “adottato”. È fiera e contenta della sua famiglia. E della sua casa. Si libera un posto e la invitiamo a sedersi. Io la guardo e...
 
No Sarah. Tu non puoi.
Mi viene il sospetto che Sarah abbia l’aids.
No Sarah, tu non puoi.
Le carte ci sono.
 
Brutta tosse -Sarah, smettila di tossire, cazzo!-; foulard in testa -togliti quello stupido foulard Sarah!-; voce bassa –alza la voce Sarah, maledizione!- e macchie sulla pelle –vatti a lavare la faccia Sarah, ti prego, vatti a lavare la faccia...-.
No Sarah, tu non puoi.
 
Ci ringrazia per essere li con lei, è molto contenta ci dice. Ci fa vedere delle foto. Sarah, in queste foto non avevi il foulard, perchè ora ce l’hai? Toglitelo Sarah, per favore.
Arriva suo figlio e lei ce lo presenta parlando con gli occhi.
Usciamo e facciamo una foto tutti insieme. Ci avviamo verso l’uscita della baraccopoli, dove ci saluta uno ad uno. Dicendoci infine:
 
grazie, vi porterò nel mio cuore per sempre. È stato uno dei giorni più belli della mia vita.

No Sarah, tu non devi.
 
Oggi, amico Dio, stammi pure alla larga che tanto io non ho nessuna voglia di vederti.
 
Oggi il mondo fa schifo.