lunedì 24 settembre 2012

Bosco




E’ notte. Qualcuno dorme, qualcuno è sceso in paese. Io sono a fare due passi. Sono qui, ad appoggiare i miei piedi negli stessi piedi che avevo a quindici anni. Ricerco proprio le stesse impronte, la stessa forza con cui il piede spingeva sulla salita, la stessa inclinazione della pianta, lo stesso ritmo. Mentre intanto il freddo pungente, che c’è sempre a Bosco di notte, mi riscalda dentro.

Arrivo al muretto, guardo Verona illuminata, mi commuovo per l’ennesima volta di fronte a questo quadro, invidiandolo perché lui è riuscito là dove io non ce l’ho fatta. E’ sempre stato più bravo di me a farci rimanere senza parole, ma sempre pensavo che prima o poi, cambiando, crescendo, diventando grande ci sarei riuscita anche io, avrei capito come faceva lui a far rimanere lo spettatore a bocca aperta. E invece lo capisco oggi qual è la sua vittoria.

Mi fermo ad ammirare. Cerco di non avere pensieri in testa, non ne ho voglia. Ho voglia solo di stare qui in piedi a guardare questo film: la città dell’amore sullo sfondo e in primo piano dei baci appena nati, dei segreti confidati, delle cattiverie sfogate, dei pianti raccolti, delle promesse fatte. Non ne avevo idea, ma mi sono accorta che avevo tutte le immagini con me e guardando laggiù qualcuno ha schiacciato play.

Guardo in alto e, fedele come ogni volta, c’è questo cielo diverso da tutti gli altri, con quelle costellazioni che tanto avrei voluto scoprire per il mio compleanno, e, come quella volta, vedo una stella cadente, che forse è un satellite, ma poco importa, gli occhi li chiudo lo stesso e oggi il desiderio si avvera.

Sono improvvisamente più piccolina, più bella, più sorridente. Sono improvvisamente più felice.

In questo nuovo corpo riprendo la mia passeggiata vivendo le immagini che prima solo guardavo e non sentendo più quel freddo che mi accarezzava durante la discesa, perché ora accanto a me c’è qualcuno.

E non importa chi sia, non importa se è il mio ragazzo o se la mia migliore amica o l’ennesima persona che mi aveva posto la fatidica domanda: “Dopo parliamo?”; non importa cosa ci stessimo confidando, su cosa stessimo ridendo, quale stupida incomprensione cercassimo di risolvere. Importa che non stavo camminando da sola. Che su quella strada ero accompagnata, affiancata, sorretta.

Non importa neanche quale storia stessi raccontando o stessi ascoltando, quale consiglio stessi ricevendo o stessi regalando, quale scelta stessi reputando giusta o sbagliata; non importa per cosa stessi piangendo o per cosa stessi consolando. Importa che qualsiasi cosa stessi facendo, la stavo facendo come se il mio mondo fosse solo lì in quel momento, come se quella fosse la cosa più importante e io dovessi farla nel migliore dei modi. Perché quella era la mia vita. Il mio mondo in quel momento eravamo noi due e quello che stava succedendo. E l’altra caratteristica che rimpiango è che l’altra persona in quel momento provava le stesse cose. Un po’ è la magia di Bosco. Un po’ è la magia di quell’età.

Quando non hai grandi pretese, quando tutto quello che ti serve ce l’hai a portata di mano, quando ancora credi nelle cose belle e quello che conosci ti basta. Quando non ti importa di chi va in Grecia o chi si sposa o chi aspetta un figlio, perché tu sei felice così. Camminando per questa strada di Bosco. Quando sei una persona buona, quando ancora non sei affaticato dalle giornate, dalle persone che incontri, quando ancora scopri quella luce negli occhi di chi guardi che ti guarda.

Quando per una minuscola cosa il tuo mondo crollava, si distruggeva in mille pezzi e mai avresti potuto recuperarli! E con la stessa facilità con cui era caduto, qualcuno te lo rimetteva in piedi in un secondo.

Sono qui, che continuo la mia salita per arrivare alla villa e andarmene a letto, non più sola, ma accompagnata, e di ogni passo mi godo la mia felicità, contenta perché sto camminando con qualcuno. E, ancora di più, ad ogni passo mi godo la felicità di chi cammina con me, contento perché sta camminando con me.

E dò una spiegazione alla vittoria di quel quadro: lui non è diventato più grande.



lunedì 10 settembre 2012

Solo la forza di un ventenne e la speranza di arrivare a casa..




“Mia madre non riusciva più a stare in piedi.”

È strano sentirlo parlare di sua madre. Lui ha 90 anni; non è facile pensare che sia esistita una madre e che lui non sia nato così, novantenne. Che sia stato giovane e addirittura piccolo. Con una mamma e un papà. Una mamma e un papà che per anni non hanno avuto più notizie di lui; per anni, tutti i giorni, in ogni momento. A chiedersi se loro figlio fosse vivo. O se fosse morto.

“Sono stati tre mesi di terrore. Puro terrore.”

Forse è anche per questo che fatico a pensarlo giovane. Porta così tante storie sulle spalle che magari queste l’hanno invecchiato prima del tempo.

Ha altre due lauree oltre a quella del Conservatorio che gli ha insegnato l’arte del violino e del pianoforte, trasmettendogli uno sconfinato amore per la musica. Dipinge, è appassionato di storia e di cultura in generale. E ha fatto la guerra.

“ Non ci si poteva muovere in gruppo perché era pericoloso. Non ci si poteva muovere di giorno perché era pericoloso.”

Alle volte entra e suona un po’ il piano, regalandoci un tranquillo sottofondo; altre entra e mi prende bonariamente in giro, facendomi ridere quando sono umanamente calma, seccandomi quando sono stupidamente di corsa. Ci sono dei giorni in cui passa e osserva gli altri signori che lavorano, altri giorni in cui prende un mazzo di carte e mi spiega dei giochi con queste.
Oggi entra e mi racconta la sua storia come non me l’ha mai raccontata prima.

“Io ero a Grosseto quando ci fu il Proclama Badoglio dell’8 settembre. Ci hanno dato l’ordine di tornare alle nostre case. Di punto in bianco. Mollare tutto e tornare a casa. Io dovevo risalire tutta l’Italia fino a Vicenza. Abbiamo sotterrato le armi in una buca e abbiamo cambiato i vestiti in vestiti civili. Da quel preciso momento i tedeschi erano nostri nemici e se ne incontravi uno per strada ti ammazzava.”

Seduto su quella carrozzina con il pigiama azzurro e un maglione, anche se siamo ad agosto, mi confida queste cose compiendo delle pause, pensieroso, raccontando tutti i dettagli, dando la certezza che il suo matrimonio felice e decenni di musica, non sono riusciti a rimuovere le cicatrici scolpite nella sua mente.

“Ho mangiato uva e foglie di viti per tre mesi. Avevo una fame immensa e il terrore di essere trovato. Soltanto la forza di un ventenne e la speranza di arrivare a casa…

E poi mi sono ritrovato di fronte il Po. Dovevo attraversarlo. Sono stato fermo qualche giorno aspettando qualcosa. E poi è arrivato. Non ho  neanche avuto il tempo di ringraziarlo. Mi ha salvato la vita e io non l’ho neanche ringraziato. Pazzesche le circostanze del nostro mondo.

Lui era un pescatore ed era arrivato lì con la sua barca. Mi disse che mi avrebbe portato dall’altra parte. Dovevo solo mettermi sotto la sua barca. Avrei fatto la traversata sott’acqua. Tirando fuori la testa quando dovevo respirare. Ci mettemmo un giorno. Solo la forza di un ventenne e la speranza di arrivare a casa…”

Smette per un attimo di parlare. Ha bisogno di un momento di pausa. Seduto sulla carrozzina, tiene sempre i piedi poggiati a terra e, con le pantofole che anche mio nonno portava, si spinge verso il pianoforte suonando qualche nota distrattamente.

C’è un’aria surreale. Un presente che stona, invaso dal passato che improvvisamente ha fatto irruzione in questa stanza, con tutta la sua resistenza e la sua pesantezza.

Mentre tento, con fatica, di figurarmi davanti agli occhi l’azione estrema di un uomo attaccato con tutte le sue forze al fondo di una barca, ecco che, strisciando le pantofole, quest’uomo torna da me e, con gli occhi per lui insolitamente umidi, riprende a raccontare.

“E poi sono arrivato in un paesino appena fuori Vicenza. Dopo tre mesi di viaggio ero lì. Non volevo correre rischi ora che quasi c’ero. Bastava che incontrassi un tedesco e tutto sarebbe stato inutile. Allora stetti per due giorni nascosto in un fienile. E poi, una mattina, un contadino mi riconobbe. Era un amico di famiglia. Mi disse che mi avrebbe portato lui dai miei genitori. Loro si trovavano in un grande capannone, insieme a tutti gli altri genitori. Nessuno sapeva niente dei propri figli. Stavano lì e aspettavano. Pregando di veder arrivare il proprio figlio. Aspettavano e pregavano. Uniti dalla stessa speranza.”

Ed è con voce tremante e gli occhi appannati che mi racconta il momento in cui ha fatto il suo tanto atteso ingresso nel capannone. E nelle sue lacrime riesco a vedere la gioia di suo padre quando lo scorse e quando si abbracciarono; e la madre, incredula, come stordita, che non riusciva più a reggersi in piedi.

                                                                                                                                                                                             Milagroso...