mercoledì 10 settembre 2014

Preghiera

Ho un paio di ore in macchina da fare con me questa sera. Qualcuno pagherebbe per la mia compagnia, una parte di me lo sa, l'altra non ci crede; in ogni caso io provo ad accontentarmi. Non ho voglia di musica, le mie orecchie ascoltano così tante parole ogni giorno che non ne possono più, una inizia anche a sentire poco e credo che lo faccia apposta. Beata lei.

Mah… quasi quasi mi metto a pregare.

Ogni tanto mi viene in mente e lo faccio. Mia nonna lo faceva molto e io non capivo troppo le sue preghiere. Quel muovere le labbra in maniera velocissima, emettendo dei suoni che erano più dei bisbigli che delle effettive parole. Tuttavia alle volte prego come lei. Mi sembra quasi di doverglielo, con tutto quello che sta vedendo, con tutte le delusioni che le sto dando.

Però non oggi. Oggi è tempo mio e so che posso pregare come voglio io. Mia nonna perdonerà anche questo.

Mi sono sempre chiesta a che cosa serva pregare. Perché io non ci credo che se prego quel ragazzo cambierà idea e tornerà a uscire di nuovo con me. Figuriamoci poi se riesco a far finire la guerra.

Eppure, mentre vado su questa autostrada, con le luci delle macchine a farmi da candele, lo faccio. Prego. Ancora una volta. Grazie a Dio.

E allora parto con l’elenco dei motivi per cui sono arrabbiata con Te, per le Tue mancanze, per tutte le volte che te ne sei andato, perché non capisco che disegno Tu abbia per me e in ogni caso quello che mi hai mostrato finora non mi piace, più che a un disegno somiglia a uno scarabocchio, mi fa schifo se davvero lo vuoi sapere. Ti racconto di quella signora che non sono sicura se ce la farà o no, e la colpa è solo Tua. Ti racconto dei dubbi che ho, delle mie paure che mi fanno accontentare di restare seduta. Ti racconto tutto questo sapendo che non posso mentire, magari a me sì, ma a Te no. In realtà ogni tanto lo faccio, ma dopo pochissimi secondi Tu suggerisci al mio cuore un’osservazione che mi fa rettificare immediatamente quello che ho detto. E come sempre mi fai ridere. E sorrido ancora leggendo ad alta voce tutte le risposte che continui a scrivere dentro di me, sorrido perché hai una risposta ad ogni mia domanda; magari qualcuna mi convince meno, ma so che ne parleremo ancora, finchè uno dei due non cambierà idea.

Ma con l’ultima risposta hai vinto Tu questa preghiera. Mi hai detto che sbagliavo: non hai già steso il mio disegno. Non avresti mai potuto farlo Tu al mio posto. Sei Dio, mica Michelangelo. Quel che hai fatto, invece, è stato regalarmi le matite. Le più belle che avessi in quel momento. E il resto tocca a me. Sono io che devo tracciare le linee del mio affresco. E poi scegliere i colori e, col tempo, dipingerlo. Fin nei minimi dettagli.

Con la mia preghiera quel ragazzo non cambierà idea e la guerra non smetterà.

Ma io ora sto meglio. E chissà, stando meglio magari incontrerò qualche altro ragazzo e porterò un po’ di pace nei posti che frequenterò.

E forse allora è proprio questo pregare. Almeno per me.






martedì 8 aprile 2014

Semplicemente una storia.

Ogni tanto, in questi giorni, ci penso e mi torna il sorriso nel cuore. Anche per questo voglio raccontare questa storia. E anche perché è una storia semplice.

Forse non si dovrebbero avere pazienti preferiti. Magari dovrebbero essere tutti uguali per chi fa il mio mestiere. In realtà io non sono di questo parere. Il giorno che non mi affezionerò più a qualche paziente in particolare probabilmente sarà giunto il momento di cambiare lavoro.

Quel momento ancora non è arrivato, visto che lui era uno dei miei pazienti preferiti.

Ci siamo trovati, facilmente. A lavorare insieme, in maniera empatica e costruttiva. Io facevo bene a lui, ma lui ne faceva a me. Regalandomi la possibilità di innamorarmi ancora una volta della mia professione.

Che è così bella. Ma è anche così faticosa. E capita, alle volte, che la fatica nasconda la bellezza. Fino a che non arrivano quei pazienti lì, quei pazienti che sembrano mandati apposta per ricordartela. Quella bellezza.

Il nostro percorso insieme è stato così riuscito che il giorno delle sue dimissioni mi regalò un orologio. Lui era un orologiaio un tempo. E questo era uno degli ultimi orologi che ancora aveva in casa.

“Voglio regalartelo. Perché mi sono trovato bene con te. Perché sei una brava persona, sei una ragazza gentile e non ce ne sono più tante così.”.

Lo indossai per qualche giorno perché a quel signore mi ero proprio affezionata e i regali simbolici mi piacciono molto più dei regali meravigliosi, quindi per un po’ lo portai con me. Fin quando non andò più. “Chissà da quanto l’aveva in casa” pensai, e così lo appoggiai sulla mensola del mio salotto.

Un mesetto dopo incontrai in ospedale una sua vicina di casa che cercava proprio me. Voleva darmi quella notizia che mi fa capire sempre perché alcuni decidono di non avere pazienti preferiti.

Lui si era spento. Qualche settimana prima. Come voleva. E insieme a lui si spense qualcosa dentro di me quel giorno. Ma le parole di questa storia sono scritte già dentro al mio cuore.

La storia che voglio raccontare è un’altra.

Arrivata a casa dopo il lavoro decido di portare l’orologio da un gioielliere per fargli cambiare la pila. Volevo indossarlo ancora. Era un mio modo per rendergli omaggio.

“Me lo lasci pure, torni tra un paio d’ore, le faccio il lavoro e lo ritira.”.

Tornai dopo un paio d’ore. Due ore alquanto malinconiche tra l’altro.

Appena entrata nel negozio la signora che aveva promesso di cambiarmi la pila si alzò, con una faccia quasi imbarazzata, e mi disse:

“Guardi signorina, non so bene cosa dirle… è un po’ un mistero questo suo orologio.. perché la pila funziona, non è scarica.. l’ho provata in un altro orologio e va. Quindi non è quella la causa. Il suo orologio …. Il suo orologio si è semplicemente fermato…”


E così, mentre i miei occhi si appannavano, il mio volto si dipingeva in un sorriso.






martedì 14 gennaio 2014

Oggi piove. Per poco però.

Io non lo capisco, ma soprattutto non lo condivido. A tratti mi fa persino arrabbiare.

Sto cercando di capirlo. Ma non sto cercando di condividerlo. Ho deciso però di accettarlo.

Perché anche io ho delle cose che la gente non condivide. Mi piacerebbe che qualcuno cercasse di capirle. Soprattutto vorrei che venissero accettate.

Allora va bene, cercherò di accettare il fatto che se piove può essere che qualcuno si incupisca.

Tuttavia io non posso accettarlo e rimanere a guardare. Se lo accetto devo almeno provarci a portare del sole. Poi se non ci riesco fa niente, ma almeno ci voglio provare.



Oggi piove. E io sorrido a pensare che per qualcuno sarà una giornata antipatica proprio perché piove.

Allora mi fermo un pochino sul mio divano prima di andare al lavoro e ascolto i ticchettii delle gocce sul tetto di casa mia. E inizio a pensare che in casa si sta bene. C’è un bel tepore. Sono asciutta. E i ticchettii delle gocce mi convincono che uscire sia una pessima idea. I ticchettii diventano rumoroni. Ok, non piove più.

Diluvia.

Sono depressa.

E in un attimo scoppio a ridere di fronte al mio abbassare improvvisamente la guardia, diventando da portatrice del sole a cercatrice di un ombrello perché questa pioggia potrebbe annegarmi! Inizio così a capire cosa succede a quelle persone che con la pioggia si incupiscono.

D’accordo.

Decido di prendere tutte le immagini più belle che porto con me, quelle che ho fotografato con il cuore come dico io, quelle che nessuna pioggia porta via; me le guardo un pochino, le faccio scorrere e già il mio sguardo si schiarisce con un sorriso.

Ne scelgo una: un piccolo tavolo rotondo in un praticello di fronte a un lago. Sopra, due tazze di cappuccino colorate. In un paese irlandese dove Charlie Chaplin andava a trascorrere le vacanze.

Già sto meglio.

Ok, per oggi questa immagine sarà il mio sfondo. Tappezzo la mia mente con questa foto e la mia anima con le emozioni che provavo standomene lì seduta, a respirare la vita.

Oggi scelgo questa, domani ne sceglierò un’altra e forse mi distrarrò dalla pioggia che cade, non più su di me.

Ma intorno a noi.