domenica 25 novembre 2012

Il 102enne.




Il 102enne, così lo chiamiamo.

Ha molte rughe; gli occhi quasi faticano ad aprirsi da quanto sono numerose. Ma non appena ci riescono, il loro colore azzurro cattura il tuo sguardo e la sua luce sbiadisce in un attimo ogni piega del viso.

E’ un uomo alto; talmente alto che è difficile capire come abbiano fatto ad accartocciarlo in modo tale da farlo stare seduto su quella carrozzina. Eppure è lì, pacifico e sereno, ad aspettare che qualcuno lo faccia camminare, o che qualcuno lo faccia chiacchierare un po’.

Oggi arrivo io, mi presento, lo saluto, gli domando.

“Mi scusi signorina!! Urli un po’, perché sono sordoo!”

Diventiamo amici in fretta e ancora più in fretta rimango affascinata dalle sue parole e dal suo racconto. Perché sono interessanti. E perché vengono pronunciate con una calma e una tranquillità avvolgente. Che faccio mia; così che le nostre storie possano incontrarsi e percorrere anche solo un minuscolo tratto di strada insieme. La mia ha tutto da guadagnarci.

Ha vissuto entrambe le guerre. Della prima ricorda poco, della seconda non è riuscito a dimenticare nulla.

Si è sposato due volte, ma non ha avuto figli.

Ha studiato pianoforte e sempre, per tutti i suoi 102 anni, ha dipinto.

“Con tempere ad olio, matite, acquerelli, qualsiasi cosa. Mi bastava disegnare!”

Gli mostro allora i nostri materiali, gli porgo un foglio e lo invito, se ne ha voglia, a dipingere quel che vuole.

Inizia a lavorare, assorto e concentrato, tanto da creare una bolla di vetro trasparente tra lui e il resto della stanza. E’ immerso nella sua arte e niente lo può disturbare. Il pennello si muove con lentezza e con meno precisione di un tempo, ma l’effetto sul pittore è rimasto immutato. La minuziosa scelta dei colori, le pennellate brevi e tremolanti fanno di me una spettatrice fortunata.

A disegno terminato gli domando se di solito attribuisce un nome a ciò che ha creato e dopo una sua risposta affermativa decide di chiamare l’ultimo: “Paesaggio”.

Sento che per oggi il nostro pezzettino di strada insieme l’abbiamo compiuto e sta giungendo al termine, ma non voglio concluderlo in maniera banale e brutale. Codardamente aspetto che sia lui a fare la prima mossa. 102 anni di esperienza non mi deluderanno. E infatti non lo fanno. Ma non credevo che sarebbero riusciti addirittura a lasciarmi senza parole. Almeno non più di quanto abbiano già fatto.

“Signorina, io ora dovrei andare, può accompagnarmi giù per favore?”

“Certamente! Al 4° piano giusto?”

“No, veramente al piano rialzato”. Anziana semplicità.

“Come al piano rialzato? Lì sono ricoverati i pazienti con Alzheimer, lei non ce l’ha. Guardi che si trova al 4° piano la sua stanza”. Giovane presunzione.

“Sì, la mia stanza si trova al 4° piano, – mi spiega lui con pazienza- ma mia moglie si trova al piano rialzato. Mi sono fatto ricoverare in questa struttura per poter stare vicino a lei. Al mattino vengo qui al 5° piano a fare ginnastica, ma appena finisco mi faccio portare da lei. Pranziamo insieme e poi stiamo lì. Insieme. Lei a volte mi riconosce. Magari non sempre. Ma so che ogni volta è contenta che io sia lì. E io ora vorrei andare a pranzare insieme a mia moglie. Lei mi aspetta.”

Non so cosa dirgli.. Ma in verità non credo che ci sia nulla da dirgli.. Forse in 102 anni ha già sentito abbastanza parole inutili.

Prendo allora le maniglie della sua carrozzina e inizio a spingerlo verso l’ascensore. Mentre l’attendiamo mi racconta che sua moglie si trova qui già da un po’ di tempo e lui prima veniva a trovarla tutti i giorni. Oramai però è stanco e non ha più voglia di vivere da solo. Così ha deciso di entrare qui. Per evitare di fare tutti i giorni, avanti e indietro, la strada da casa sua alla nuova casa della moglie.

Arriviamo al piano rialzato. Digito il codice per poter aprire la porta e lui mi dice a che tavolo portarlo.

“Non c’è ancora mia moglie, sarà in giro. Le piace camminare.. Ah, eccola che arriva”

Una minuta signora dall’aria spensierata si dirige verso di noi a piccoli passi; arriva dal marito e, prendendogli la mano, gli dice: “Sei arrivato!”. E poi prende posto vicino a lui.

Sono seduti uno vicino all’altro. Entrambi guardano davanti a loro. In silenzio. Ma parlandomi di amore.

martedì 13 novembre 2012

Conversazione.



“Dai, non fare sempre così..”

“Così come?”

“Come fai sempre..”

“Io non faccio sempre così, io faccio quello che faccio e stop.”

“Ok, va bene, hai ragione tu. Però ora fidati di me. Provaci.”

“Lasciami in pace”

“Poi ti lascerò in pace”

“Senti, mollami, non hai altro da fare?”

“Questo mi preme di più”

“Finirai prima o poi di assillarmi?”

“No, non smetterò mai di prendermi cura di te”

… … … …

“Ok, l’ho fatto? Sei contento?”

“Aspetta ancora un attimo”

“Mi sono rotto”

“Dai, ancora un attimo”

“Non ce la faccio più”

“Non ce la fai più a stare lì in piedi con le gambe larghe, le braccia alzate, le mani aperte e una risata sulle labbra?”

“No, non ce la faccio più, va bene?”

“Va più che bene”

“E allora?”

“Allora cosa?”

“Cos’hai dimostrato con questa cosa? Cos’hai dimostrato chiedendomi di rappresentare col mio corpo la felicità? Volevi farmi fare la figura del deficiente?”

“Ho dimostrato che anche essere sempre felici è faticoso. E impossibile. E non fa bene. Dopo un po’ si ha male, si è scomodi, si è tirati. Si ha voglia di cambiare posizione, di ridere meno, magari di piangere di più, o semplicemente di essere più silenziosi. E poi si avrà voglia di cambiare ancora, perché anche quella posizione sarà difficile da mantenere, e allora si allargheranno le braccia, e poi le si piegheranno e poi incroceremo le gambe e cambieremo, cambieremo. E poi cambieremo ancora.”

“Quindi non fa bene essere sempre felici.”

“La natura umana non è fatta per essere sempre felice o per essere sempre triste. Non è fatta per essere sempre.”

“E allora per cosa è fatta?”

“È fatta, sempre, per essere.”