giovedì 19 luglio 2012

Tu esisti.





Di dove sei tu? Io sono italiana.

E tu invece? Io sono cittadina del mondo.

Scusa? Dai, oh, poco “figlia dei fiori” e “tutto il mondo è paese”, t’ho fatto una domanda abbastanza precisa: da che paese vieni, dove sei nata insomma?

Io sono nata in Burundi e poi, subito, mi hanno portata in Rwanda. Lì c’è stata la guerra civile, allora siamo scappati per non sapevamo dove, e siamo finiti in Italia. Io non sono registrata da nessuna parte.

Io non esisto.
Tu, sì, mi stai vedendo, ma io per il mondo non esisto.
Da nessuna parte c’è scritto il mio nome.
Io sono uguale a te.
Tu però esisti. Io no.

Se io voglio partecipare a una borsa di studio, non posso. Se mi voglio aggregare a un viaggio che i miei amici fanno in Grecia, non posso. Se voglio fare l’anno di servizio civile all’estero, non posso. Se voglio andare a Londra per imparare la lingua, non posso. Se voglio prendere e andarmene, io non posso farlo.

Tu discuti con tuo padre. Io mio padre non l’ho potuto vedere per quattro anni perché era in Canada e non poteva uscire da lì, noi eravamo in Italia e non potevamo uscire da qua. 4 anni. Giorno dopo giorno. 4. Quattro. Anni.

Un giorno hanno bussato alla nostra porta e ci hanno detto: ormai la guerra è qui. Tra 1 ora partiamo. Tu immagina la tua cameretta. Il tuo armadio, i tuoi vestiti, le tue cose, i tuoi ricordi. Hai tempo 1 ora per fare una valigia per andare non sai dove e non sai per quanto tempo. Immagina mia madre che allora aveva tre figlie, una di 6 anni, una di 7 e una di 11. Doveva pensare alle loro cose. Ai giocattoli preferiti di ciascuna, ai loro vestiti, alle medicine perché io e mia sorella ai tempi stavamo male. E poi doveva pensare anche alle sue di cose. 1 ora non basta neanche per sederti sul divano e guardare un film, credi che basti per mettere cinque vite nel bagagliaio di una macchina? Eppure, alle 11, io, mia madre, mio padre e le mie due sorelle eravamo lì, con gli altri.

Della mia infanzia, io ho un foulard. Non ho peluche, non ho foto, non ho giocattoli o ricordi. Io ho un foulard.

Quando poi abbiamo girato un po’, un giorno, ci curava mia sorella più grande perché mia madre era andata al mercato a vendere delle pentole che aveva incastrato in macchina, dovevamo portarle delle cose, a mia madre, e lei ce l’aveva detto, ce l’aveva detto perfino: “Sono sulla destra, verso l’inizio del mercato.”. Allora noi siamo andate, ma non l’abbiamo trovata; ci siamo fatte tutto il mercato, quando poi lei ci è venuta incontro dicendo: “Ma vi ho detto che ero là…” quella era mia madre.

E…e noi non l’avevamo riconosciuta.

Tu pensa a tua madre che tutte le mattine si lava, si pettina, si mette il talleur, prende la borsetta e va al lavoro. Come puoi riconoscerla quando è seduta in mezzo alla polvere, sporca, mentre cerca di vendere le due pentole che ha messo su quel lenzuolo di fronte a lei? Mia madre lavorava in una banca. E noi non l’abbiamo riconosciuta.

Tu mi vedi.
Ma io non esisto.
 
Serena studia al politecnico di Milano e ha circa la mia età. E quando le chiedono qualcosa del suo futuro è un po’ incerta. Forse pensa a quel signore egiziano che è laureato in economia e commercio ed ora fa il pizzaiolo. Oppure a Dominique, avvocato, assilla i passanti in via Dante perché gli comprino un libro. O forse pensa che non esiste, cosa può fare una persona che non esiste?
 
Può far pensare a me che esisto. Può farmi pensare che sono fortunata ad arrabbiarmi così spesso coi miei famigliari. Sono fortunata a potermi lamentare di quanto costa l’acqua in Spagna. Sono fortunata ad avere dei problemi con le date per il mio viaggio di laurea.

Forse Serena domani incontrerà qualcuno che le permetterà di esistere.

Io so che oggi Serena ha incontrato persone che già esistono, ma magari le ha spronate a farlo un po’ meglio.



 
 

martedì 10 luglio 2012

Domani.


Non ha occhi lui.

Non vede dove ti trovi, se sei insieme ad un paziente o addirittura in un gruppo di pazienti che hanno bisogno di te in quel momento; se sei nel mezzo di una riunione con colleghi e medici; se sei da sola in casa senza nessuno vicino a cui poterti aggrappare in quel momento; se sei fuori con un amico che si spaventerà e si preoccuperà. Anche se dormi lui arriva. E ti sveglia.

Lui non vede. Ma se anche vedesse, non gli importerebbe di nulla e arriverebbe ugualmente.

Irromperebbe nello stesso modo furioso e aggressivo, sradicando le tue certezze e annientando le tue fondamenta; ribaltando i pensieri della tua testa, affogando quelli più belli, per sommergerti violentemente coi più brutti. Tutti insieme. Senza ordine. In primo piano. Tutti, con il loro peso infinito, crollati addosso a te. Loro, che sei riuscita a controllare razionalmente fino ad ora, con fatica, calma e pazienza, sconfiggono in un attimo tutta la tua ragione e finalmente sono liberi di tornare allo scoperto. E con la loro forza, solo momentaneamente assopita, si prendono tutta l’aria. Senza lasciarne più per te.

Non hai più aria. E te ne accorgi perché quando ti ricordi di tornare a respirare, non ci riesci. Ci riprovi e ancora non riesci. Devi continuare a provarci. Non fosse altro che per sopravvivenza.

Non sei capace di muoverti. Sei annientata. Puoi solo stare lì. Ad aspettare che torni l’aria. E ad attendere che tutte le tue paure principali tornino ad essere ragionevoli e, piano piano, riprendano il loro posto.

È un’attesa spossante. Ed agghiacciante.

Tuttavia, le lacrime che scorrono sul tuo viso hanno un qualche cosa di dolce. Fanno tenerezza. Perché quando il viso non è più in grado di singhiozzare, perché non ha più le forze per farlo, loro continuano a scendere, senza sforzo apparente. Come se fosse la cosa più naturale del mondo. Uscire dal tuo occhio ormai vuoto, scivolare leggermente sulla tua guancia e allontanarsi delicatamente una volta arrivata alla curva del mento. Così. Come a voler ristabilire un ordine. Come a richiamare il tempo. Come se volessero riportare un ritmo, così che poi possa seguirlo anche il tuo cuore. E poi i tuoi polmoni.

Loro sanno come si fa. Solo che ora non se lo ricordano. Ma se qualcuno glielo mostra, riprenderanno a compiere quei movimenti e, a poco a poco, torneranno a sembrare normali.

Questo è ciò che rende quelle lacrime, danzanti sul tuo viso, dolci.

Poi andranno via anche loro. Per lasciare il posto a un mezzo sorriso. Uno intero, quel corpo distrutto non riesce a farlo, ma mezzo sì. Perché è sempre lui a iniziare la battaglia, ma è sempre quel corpo devastato a vincerla. E questo, domani, trasformerà quel sorriso in intero.

Sapendo che prima o poi lui tornerà e non avrà alcun riguardo a calpestarla nuovamente, come già ha fatto.

Ma sapendo anche che lei tornerà sempre a sorridere.



lunedì 9 luglio 2012

Dario.





La domenica si va a messa tutti insieme. Los ninos especiales hanno il proprio posto, ma sempre arrivano un po’ prima, per evitare che qualcuno glielo rubi. Sarebbe impensabile per loro passare tutta la messa in piedi. Anche questa domenica arriviamo qualche minuto prima e ci sediamo tranquilli, sulla sinistra, a metà chiesa, vicino alla parete, al nostro posto.

Allo scambio della pace mi volto per stringere le mani dei ragazzi. A un certo punto ne stringo una che non è famigliare. È quella di una donna, ed è seduta di fianco a Dario. Penso a chi possa essere e fantastico immaginando che sia sua mamma, che per questa domenica è venuta a trovarlo. La Nico ce l’aveva detto che lei era una brava mamma che, a volte, veniva a trovarlo Dario. A volte è tantissimo. Dario è più che fortunato perché sua mamma in più di un mese è venuto a trovarlo una volta.

Scopro che la mia fantasticheria era vera: quella signora pacioccona, dalla faccia simpatica è proprio la mamma di Dario. Andiamo tutti insieme al parco giochi e stiamo lì, mentre Dario e sua mamma sono seduti sulla panchina insieme a Nicoletta. La mamma le fa le domande, le chiede come sta suo figlio. E intanto lo accarezza. Gli sorride. È per lui una mamma. E Dario appoggia, sorridendo serenamente, la sua testa su di lei e si fa cullare. In questo momento anche lui è finalmente figlio.

Ci avviamo verso la salita tutti più leggeri, tutti più rinfrescati da questa visita.

Fino a quando Nicoletta inizia a giocare con Dario. Ma non è questo il momento. Stiamo camminando perché è ora di pranzo, dobbiamo muoverci, perché ora gli copre gli occhi e gli chiede: “Donde esta Dario?”. Poi vedo la signora paffuta che bacia Dario. Si volta, mi passa di fianco e mi mormora con voce tremante: “Ciao senorita”, io riesco solo a bofonchiare un ciao, perché per cercare di capire cosa stesse succedendo ho incrociato i suoi occhi e li ho visti tristemente lucidi. Guardo Dario nuovamente e cerca di divincolarsi, ha gli occhi aggrottati, fa così quando è arrabbiato, quando gli stanno facendo fare qualche cosa che non vuole fare, che non gli piace, è il suo modo per dire che non è d’accordo. Ora però non sta dicendo solo questo. I suoi occhi altrettanto lucidi stanno urlando:

Perché mamma? Perché se sono tuo figlio non posso venire a casa con te? Non è così? Non è forse che le mamme stanno insieme ai loro figli? Che vivono con loro. Che gli danno da mangiare e la sera sono loro che li mettono a letto? Mamma, non funziona così? È perché non ti piaccio? È perché sono così? Scusami mamma se sono così, veramente scusami, io cerco di non esserlo, ma non ci riesco, non ci riesco. Scusami mamma.

E poi si lascia tirare verso quella che, sebbene non voglia, è casa sua. E mentre si lascia tirare per mano si guarda indietro una, due, tre, dieci volte, con la costante speranza che sua madre lo avrebbe perdonato, avrebbe capito che non era colpa sua, lo avrebbe amato e lo avrebbe portato a casa con sé, che non l’avrebbe lasciato andare via senza di lei; come poteva non farlo? Era suo figlio. Erano stati bene al parco.

Ah, Dario è così perché è nato con un ritardo mentale, lieve. Questo ritardo mentale gli ha fatto bere una bottiglia intera di veleno per topi. È stato un attimo. Prima poteva vivere con sua mamma.

Dopo no.