Di dove sei tu? Io sono
italiana.
E tu invece? Io sono
cittadina del mondo.
Scusa? Dai, oh, poco
“figlia dei fiori” e “tutto il mondo è paese”, t’ho fatto una domanda
abbastanza precisa: da che paese vieni, dove sei nata insomma?
Io sono nata in Burundi e
poi, subito, mi hanno portata in Rwanda. Lì c’è stata la guerra civile, allora
siamo scappati per non sapevamo dove, e siamo finiti in Italia. Io non sono
registrata da nessuna parte.
Io non esisto.
Tu, sì, mi stai vedendo,
ma io per il mondo non esisto.
Da nessuna parte c’è
scritto il mio nome.
Io sono uguale a te.
Tu però esisti. Io no.
Se io voglio partecipare a
una borsa di studio, non posso. Se mi voglio aggregare a un viaggio che i miei
amici fanno in Grecia, non posso. Se voglio fare l’anno di servizio civile
all’estero, non posso. Se voglio andare a Londra per imparare la lingua, non
posso. Se voglio prendere e andarmene, io non posso farlo.
Tu discuti con tuo padre.
Io mio padre non l’ho potuto vedere per quattro anni perché era in Canada e non
poteva uscire da lì, noi eravamo in Italia e non potevamo uscire da qua. 4 anni.
Giorno dopo giorno. 4. Quattro. Anni.
Un giorno hanno bussato
alla nostra porta e ci hanno detto: ormai la guerra è qui. Tra 1 ora partiamo.
Tu immagina la tua cameretta. Il tuo armadio, i tuoi vestiti, le tue cose, i
tuoi ricordi. Hai tempo 1 ora per fare una valigia per andare non sai dove e
non sai per quanto tempo. Immagina mia madre che allora aveva tre figlie, una
di 6 anni, una di 7 e una di 11. Doveva pensare alle loro cose. Ai giocattoli
preferiti di ciascuna, ai loro vestiti, alle medicine perché io e mia sorella
ai tempi stavamo male. E poi doveva pensare anche alle sue di cose. 1 ora non
basta neanche per sederti sul divano e guardare un film, credi che basti per
mettere cinque vite nel bagagliaio di una macchina? Eppure, alle 11, io, mia madre,
mio padre e le mie due sorelle eravamo lì, con gli altri.
Della mia infanzia, io ho
un foulard. Non ho peluche, non ho foto, non ho giocattoli o ricordi. Io ho un
foulard.
Quando poi abbiamo girato
un po’, un giorno, ci curava mia sorella più grande perché mia madre era andata
al mercato a vendere delle pentole che aveva incastrato in macchina, dovevamo
portarle delle cose, a mia madre, e lei ce l’aveva detto, ce l’aveva detto
perfino: “Sono sulla destra, verso l’inizio del mercato.”. Allora noi siamo andate,
ma non l’abbiamo trovata; ci siamo fatte tutto il mercato, quando poi lei ci è
venuta incontro dicendo: “Ma vi ho detto che ero là…” quella era mia madre.
E…e noi non l’avevamo
riconosciuta.
Tu pensa a tua madre che
tutte le mattine si lava, si pettina, si mette il talleur, prende la borsetta e
va al lavoro. Come puoi riconoscerla quando è seduta in mezzo alla polvere,
sporca, mentre cerca di vendere le due pentole che ha messo su quel lenzuolo di
fronte a lei? Mia madre lavorava in una banca. E noi non l’abbiamo
riconosciuta.
Tu mi vedi.
Ma io non esisto.
Serena studia al
politecnico di Milano e ha circa la mia età. E quando le chiedono qualcosa del
suo futuro è un po’ incerta. Forse pensa a quel signore egiziano che è laureato
in economia e commercio ed ora fa il pizzaiolo. Oppure a Dominique, avvocato,
assilla i passanti in via Dante perché gli comprino un libro. O forse pensa che
non esiste, cosa può fare una persona che non esiste?
Può far pensare a me che
esisto. Può farmi pensare che sono fortunata ad arrabbiarmi così spesso coi
miei famigliari. Sono fortunata a potermi lamentare di quanto costa l’acqua in
Spagna. Sono fortunata ad avere dei problemi con le date per il mio viaggio di
laurea.
Forse Serena domani
incontrerà qualcuno che le permetterà di esistere.
Io so che oggi Serena ha
incontrato persone che già esistono, ma magari le ha spronate a farlo un po’
meglio.