“Ma il Parkinson ti
uccide o è come l’influenza che stai un po’ male, ma poi guarisci?”
Sei seduto qua davanti a me e mi fai questa domanda con il
tuo italiano misto a spagnolo. Sono seduta di fronte a te e non posso scappare.
Codardamente lo farei volentieri.
Scusami, ma tu mi stai chiedendo se morirai.
Sei giovane, molto giovane, soprattutto per l’età che vedo a
lavoro da me. Non hai ancora 50 anni e sei già nonno, due volte. Io non so
neanche se alla tua età sarò madre. Dei tuoi nipoti uno l’hai visto una volta,
l’altro solo in foto.
Sei in Italia da 14 anni, all’inizio c’era anche tua
sorella, ma poi lei è tornata in Sud America.
E perché tu non sei tornato? Non hai più parenti qui, là
hai la tua famiglia; perché rimani qua, amico mio? Qua la gente come te la
trattiamo male noi..
“Dove vivevo io avevo un’officina bella grande, un po’ di
gente che lavorava per me. Avevo tanti soldi e una bella casa. Pure un
appartamento che affittavo. Volevo migliorare il mio lavoro. Volevo imparare a
farlo meglio. Anche voi andate a studiare all’estero per imparare cose diverse,
cose nuove. Anche voi fate qualche anno in un altro paese per crescere
professionalmente. Era quello che volevo fare anche io. Stare in Italia per un
anno o due e tornare a casa avendo imparato altre cose che avrebbero potuto
migliorare la mia officina.”
E poi cosa è successo, amico mio?
“Poi quando sono arrivato qua non ho trovato lavoro così
facilmente. La gente non si fida di noi. Ho cercato tanto, tantissimo, ma
trovavo solo lavoretti di poche settimane, che non mi bastavano né per
guadagnarmi la fiducia degli altri, né per pagarmi l’affitto. In ogni caso
guadagnarsi la fiducia è la cosa più difficile. Se hai guadagnato la fiducia di
qualcuno non deluderla mai, Elèna”
Non ti preoccupare per me, amico mio, la mia vita è un
lusso. Raccontami di te. Perché dopo questo inizio difficile non te ne sei
tornato a casa?
Mi guarda come se fossi io ad avergli posto una domanda
assurda. Mi chiede con gli occhi come io faccia a non capire.
No, amico mio, non capisco. Se io parto e vado dall’altra
parte del mondo e sto male, non mi trovo, faccio fatica, non mi trattano bene,
mi sento sola, i miei genitori mi direbbero senz’altro di tornare da loro, di
lasciar perdere. I miei amici mi verrebbero a prendere. Io per prima vorrei
tornarmene a casa mia.
“Mi vergognavo.
Avevo fallito. Ero partito con l’idea di tornare migliorato
e invece tornavo sconfitto, da perdente, da chi non ce l’aveva fatta. Non
potevo tornare.
Mi vergognavo Elèna.”
No, non riesco a capirlo. O meglio, capisco che è la tua
cultura. La mia non mi fa fidare di te, la tua non ti fa tornare dalla tua
famiglia perché hai fallito e ti vergogni. Forse entrambe sono giuste ed
entrambe sbagliano, non lo so, non mi interessa. Capisco tuttavia che,
quantomeno, la tua cultura è più nobile della mia.
Abbiamo lavorato bene insieme. Ci siamo fatti un sacco di
risate e abbiamo discusso lo stesso numero di volte. Ti ho insegnato a giocare
a dama, eri una schiappa e alla fine vincevi solo tu. Hai costruito una
scacchiera con una precisione e determinazione che non vedevo da tempo. E alla
fine l’hai lasciata a me.
Allora l’ultimo giorno io te ne ho regalata una.
E quando hai visto il pacchetto la sorpresa è stata così
genuina che le parole quasi sono mancate. Degli occhi commossi mi hanno
guardata e la gratitudine che vi ho vista dentro mi ha fatto tremare la gambe.
Sì, amico mio, morirai.
Ma io ti prometto che, insieme a te, farò il mio lavoro meglio che posso
per rendere la vita impossibile alla tua malattia di merda.